La paura fa 90: un’analisi socio-emozionale della paura

La paura fa 90: un’analisi socio-emozionale della paura

Di Carlo Cannistraro

Fin da piccolo, quando sentivo dire che ‘la paura fa 90’, non capivo esattamente il suo significato, così ho cominciato a chiedere un po’ in giro, ricevendo diverse spiegazioni, alle volte non esattamente congruenti tra loro. Qualcuno mi parlava di questa citazione riferendola a certe combinazioni di carte che vengono attribuite, specialmente nell’Italia meridionale a La Smorfia, dove il numero 90 rappresenta di fatto la paura: quella che attanaglia un soggetto che si trova davanti ad una particolare situazione e deve dunque affrontare un ostacolo reale o semplicemente percepito, dove la componente emotiva gioca un ruolo di prim’ordine. Di solito la paura si accompagna con un tentativo di Lotta o Fuga, o anche di richiesta di aiuto per qualcosa di reale o semplicemente percepito come tale, legato a situazioni angosciose di pericolo e di mancanza di sicurezza. Nei tarocchi la sua immagine è quella del diavolo, mentre se inteso come numero angelico, può rappresentare il coraggio a proseguire nella propria missione esistenziale. Nella Cabala è un numero che indica la lettera Tsadi che significa arpione, un mezzo utilizzato per pescare in profondità. Il scopo di questa lettera è accedere ad un altro livello di esistenza e coscienza. 

I momenti di paura possono evidentemente essere vissuti ed interpretati in modi completamente differenti tra di loro. Alle volte, quando ne siamo almeno parzialmente consapevoli, possiamo scegliere come indirizzare il nostro pensiero nell’affrontarli, ma purtroppo il più delle volte la nostra reazione è automatica ovvero una reazione di sopravvivenza in risposta ad un attacco alla vita. Un automatismo necessario e indispensabile che però ci disconnette dalle nostre capacità di elaborazione del pensiero conscio. Questo è capace di decidere e scegliere in base ad esperienze pregresse, in riferimento a predizioni di molteplici risultati possibili. Quando possiamo scegliere agiamo sempre all’interno di un contesto che ci permette di assaporare il nostro grado di libertà, mentre se reagiamo attraverso meccanismi automatici di sopravvivenza, ne diventiamo prigionieri e non avremo dunque la possibilità di accedere completamente a tutte le nostre risorse e capacità. La paura vista dunque come un’opportunità di cambiamento o come una manipolazione; come stimolo per avanzare da un punto di vista evolutivo; come incapacità di riconoscere che tutto ha un senso nella vita, anche quei momenti che ci sembrano completamente avversi. Eppure se guardiamo con gli occhi curiosi del bambino che è dentro di noi, la paura di ‘qualcosa’ potrebbe semplicemente essere un invito a sperimentare quel ‘qualcosa’. Facciamo un esempio: se avessi paura di ‘cadere’, quale sarebbe la miglior soluzione per uscire da questa situazione? Con grande semplicità si potrebbe asserire che basterebbe fare l’esperienza del ‘cadere’, ovvero lasciarsi cadere a terra per far scomparire del tutto questa sensazione sgradevole di paura. A terra, quando sei caduto, la paura di cadere non ha più senso di esistere, non credi? Quindi la miglior risposta probabilmente non sarebbe quella di evitare l’oggetto della paura in questione ma piuttosto quella di chiedersi a cosa potrebbe servire questa esperienza e cosa ci sarebbe da portare in coscienza di profondo e di utile nella nostra esistenza. Nella vita sono padre e osteopata e se c’è una cosa che ho imparato, è questa: la vita è movimento, ovvero dove c’è movimento c’è sempre della vita. Da sempre i segreti della vita mi incuriosiscono e stimolano il mio spirito di ricercatore libero. Libero da dogmi congelati e verità inaccessibili. Libero da manipolazioni fideistiche legate a pseudo verità travestite da illusorie certezze scientifiche. A questo punto sarebbe bene chiarire il significato della parola scienza o scientifico in quanto utilizzata spesso in modo improprio e manipolativo a garanzia di verità in controvertibile. 

Per la Treccani la parola scienza è l’insieme delle discipline fondate essenzialmente sull’osservazione, l’esperienza, il calcolo, o che hanno per oggetto la natura e gli esseri viventi, e che si avvalgono di linguaggi formalizzati. In particolare, la s. moderna rappresenta l’insieme delle conoscenze quale si è configurato nella sua struttura gerarchica, nei suoi aspetti istituzionali e organizzativi, a partire dalla rivoluzione scientifica del 17° secolo. Fu concepita inizialmente (principalmente con G. Galileo) come concezione del sapere alternativa alle conoscenze e alle dottrine tradizionali (relative al modello aristotelico-tolemaico), in quanto sintesi di esperienza e ragione, acquisizione di conoscenze verificabili e da discutere pubblicamente (e quindi libera da ogni principio di autorità). Successivamente il ruolo della s. si è andato via via rafforzando dal punto di vista sia sociale e istituzionale sia metodologico e culturale, e la s. è diventata uno degli aspetti che meglio caratterizzano, anche per le innumerevoli applicazioni tecniche, il mondo contemporaneo e i valori culturali che esso esprime. 

Se prendiamo invece la citazione di Dean Radin che è uno scienziato dell’Istituto di Scienze Noetiche (IONS) di Petaluma, in California, la scienza può essere definita come un corpo di fatti diffusamente accettato e un metodo per procurarsi tali fatti. Gli scienziati sono pronti a discordare, tuttavia, su che cosa significhi “diffusamente accettato”, quali “fatti” e quali “metodi” si intendano, che cosa si intenda con “intendere”, e addirittura a volte che cosa “significhi”. Ne risulta che la definizione di scienza dipende in gran parte dalla persona a cui la si chiede. Non siamo troppo lontani dal vero se ripetiamo la definizione concisa “la scienza è ciò che fanno gli scienziati”. In ogni caso, la maggior parte degli scienziati sarebbe probabilmente d’accordo sul fatto che ciò che ha reso grande la scienza è stato il metodo scientifico. In cosa consiste, quindi, questo metodo, e perché è così grande? Se gli scienziati non riescono facilmente a mettersi d’accordo su che cosa sia la scienza, sembra improbabile che possano concordare su qualcosa di più complesso come “il” metodo scientifico. Gli psicologi Robert Rosenthal, dell’Università di Harvard, e Ralph Rosnow, della Temple University sostengono che il “metodo scientifico” sia difficile da definire in quanto «il termine “metodo scientifico” è di per sé circondato di controversie, ed è una definizione inappropriata di cui bisogna liberarsi, dal momento che nella scienza esistono molti metodi riconosciuti e legittimati» (dal libro Fenomeni Impossibili, Macro Edizioni). 

Ecco che la scienza, includendo ovviamente il suo aggettivo ‘scientifico’, non ha nulla a che fare con la certezza, la verità assoluta o la notizia sicura, anche perché nella nostra vita su questa meravigliosa realtà chiamata Terra, non esiste niente di assolutamente e incontestabilmente certo. Nessuna Verità con la V maiuscola può essere presa in seria considerazione se non piuttosto una verità con la v minuscola che prende forma dalle nostre credenze, uniche e irripetibili, e dunque impossibilitate ad essere confutate da tutta l’umanità intera. Eppure oggi viene accreditato alla scienza un potere che deve essere obbligatoriamente condiviso e rispettato in quanto validato. Il principio di validazione va bene, ma è anche importante sapere chi sono i referenti di questa validazione. E quali parametri sono stati presi in considerazione e osservati per giungere, attraverso certe interpretazioni, a conclusioni di un certo tipo piuttosto che di un altro. Oggi il rischio è quello di accogliere come ineluttabile l’idea che solo gli esperti hanno diritto di esporre i fatti inerenti alla loro competenza e che solo loro possono trarre le debite conseguenze e quindi è solo grazie al loro insindacabile giudizio che vengono attribuiti l’onere e l’onore di scegliere, magari per tutta una comunità, il da farsi in merito ad un emergenza. Spesso è più un onore camuffato da interessi piuttosto che l’onere di cui spesso non rispondono mai in prima persona. 

Riporto qui di seguito le parole del filosofo Diego Fusaro tratte da un’intervista del 27 marzo 2020 in risposta ad una notizia ANSA facente riferimento a dichiarazioni di Andrea Martella, sottosegretario con delega all’Editoria, su possibili sanzioni contro le fake news, che trovo molto significative e pregne di buon senso: “… l’occidente nega sé stesso dacché nega uno dei suoi principi fondativi e fondamentali: la libera ermeneutica, ossia la facoltà di interpretare. Martella dovrebbe sapere che se nelle scienze della natura può valere il parametro dell’esattezza, esso non vale nelle scienze dello spirito ove invece è richiesto quel lavoro dell’interpretazione che presuppone che vi siano versioni e letture diverse e talvolta anche opposte. Senza essere per forza nicciani fautori del teorema per cui non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Una cosa è certa: i fatti possono essere variamente interpretati. Ora, negare la possibilità dei punti di vista diversi e delle differenti interpretazioni, squalificando come fake news quello che non risultano coerenti con la linea che si è deciso essere esatta e indubitabile, significa appunto negare il principio dell’ermeneutica. Di più, significa negare la possibilità stessa della democrazia che si regge sul dialogo tra i diversi e non su quella della delegittimazione del diverso su cui si fonda il dispotismo. Chi decide che cosa è vero o falso, caro Martella? Il dialogo socratico tra le diverse posizioni, avrebbe detto Platone, gli esperti dell’informazione mi dirà invece lei. E chi decide, le domanderebbe ora Socrate, chi è esperto dell’informazione e chi no, chi dice verità indubitabili e chi propaga fake news. La risposta è chiara; gliela leggo sulle labbra anche se, mi rendo conto, non la si può dire, almeno non così brutalmente. Il potere decide chi è esperto e chi no, chi è titolato a diffondere le tesi che si propone siano vere e chi invece deve essere silenziato perché dice fake news, cioè tesi che contrastano con ciò che giova al potere e dunque è vero. E’ davvero straordinario come la tesi vera sia sempre puntualmente quella che conferma il potere ed il suo ordinamento, ma è il potere che ama il vero o è il potere a decidere cosa deve essere vero? La domanda è legittima e urgente…”. 

Dunque…”se vi limitate sempre e solo a dover accettare quello che accade nella vostra vita perché in fondo così fan tutti, darete con molta probabilità un’informazione costante al vostro inconscio di non avere avuto o trovato un’altra soluzione più confortevole di agire in quel contesto e che vi siete sentiti costretti, almeno in parte, a fare qualcosa che quasi certamente non corrispondeva pienamente al sentirsi in piena libertà di scelta e di discernimento. 

È sbagliato tutto questo? Assolutamente no. Ma quando non rispettiamo la nostra verità, rispondendo agli eventi con azioni e atteggiamenti non congruenti al nostro volere e intendimento, non stiamo veramente vivendo la nostra vita, ma stiamo solo sopravvivendo. Ed è sbagliato quando lasciamo che sia la sopravvivenza a guidarci nel nostro cammino? Beh, l’abbiamo appena detto: non c’è mai né una cosa giusta né una sbagliata, ma queste cose lo diventano esattamente nel momento in cui utilizziamo il filtro delle nostre credenze. Se crediamo che una cosa ci farà soffrire, diventerà all’istante pericolosa e sarà dunque da evitare poiché giudicata ‘sbagliata’ per noi; mentre se crediamo che una certa situazione ci porterà della gioia, ci metteremo subito nell’ottica di vivere questa esperienza poiché , senza dubbi, l’avremmo valutata essere ‘giusta’, ovvero migliore per noi. 

Invece di ricercare il perché non sia sbagliato sopravvivere, forse sarebbe meglio prendersi del tempo ed utilizzare le nostre energie per ricercare quale sia invece il vero senso di questo nostro sopravvivere? In effetti, da un punto di vista neuro-linguistico, è sempre meglio formulare una frase con una connotazione affermativa, piuttosto che rincorrere una risposta che sia conseguente ad una domanda formulata come negazione. Questo fatto è di fondamentale importanza per il nostro inconscio, il quale recepisce qualsiasi cosa senza la capacità del discernimento, atto peculiare della coscienza. Per il nostro inconscio, il pensiero che abbiamo in testa, diventa la nostra realtà che si attiva, utilizzando di fatto tutte le risposte fisiologiche e funzionali del caso” (dal mio libro Alla Ricerca della Fede Perduta in pubblicazione per l’estate 2020)

Provate allora per un attimo a pensare all’ultima volta che vi siete veramente spaventati. Cosa avete provato a livello fisico? E a livello emozionale? Si possono davvero scindere questi due livelli o li viviamo in qualche modo sincroni? Nella mia esperienza ho visto persone, prevalentemente di sesso femminile, che in preda ad un certo livello di spavento, descrivevano di avere difficoltà nella zona della gola, con un senso di ostruzione e con evidenti difficoltà respiratorie mentre altre persone, prevalentemente di sesso maschile, che davanti alle stesse problematiche descrivevano un senso di oppressione a livello toracico sempre legate a difficoltà di respiro. Così, se lo spavento per le cause più diverse si dovesse trasformare in una paura molto intensa, potrebbero evidenziarsi delle sensazioni di difficoltà respiratorie aggravate, che a loro volta creeranno un’ulteriore condizione di paura specifica, riferibile alla possibilità di sopravvivenza, legata alla paura di morire. A questo punto, la paura di morire diventa un amplificatore che si ritorce su sé stesso, come un gatto quando si morde la coda, in un movimento quasi senza fine. Ma perché esistono così tante risposte diverse da un punto di vista quantitativo, ovvero perché ci sono persone che reagiscono davanti ad uno stesso evento in modi così differenti? E se tutti questi meccanismi di regolazione di risposta alla paura partissero in tempi non sospetti, addirittura quando eravamo ancora in pancia di mamma? E se fosse così, sarebbe possibile avere del tempo e ovviamente delle opportunità per ottimizzare la regolazione di questi fenomeni di risposta alla paura? Procediamo con calma allora per cercare di dare delle risposte a questi curiosi quesiti, vagliando più possibilità, alla ricerca di una plausibile verità che con semplicità ci aiuti a renderci migliori, più autonomi e più liberi. 

Trascrivo qui di seguito un piccolo paragrafo del bellissimo libro di Moira Dempsey Beyond the Sea Squirt (che uscirà in italiano con il titolo Oltre l’Ascidia, Un Viaggio con i Riflessi probabilmente entro la fine di luglio di quest’anno) in cui descrive con semplicità l’importanza del primo riflesso arcaico che si esprime già alla 5^ settimana in utero e che condiziona in modo significativo le modalità con cui ci relazioneremo con il mondo, sia da un punto di vista fisico e biochimico che da quello comportamentale, relazionale ed emozionale: “…quando esaminiamo il processo di sviluppo e analizziamo i meccanismi che ci fanno agire in un certo modo, dobbiamo guardare al Riflesso di Paralisi da Paura (RPP). Questo è il riflesso che gioca un ruolo iniziale nel plasmare come impareremo a essere sicuri nel nostro mondo e nello sviluppare quella che diventerà una risposta ben funzionante di Lotta o Fuga. Il RPP è uno dei nostri riflessi intrauterini, un sistema di riflessi che iniziano a svilupparsi durante lo stadio embrionale – intorno alla quinta settimana. A differenza degli altri riflessi, quelli intrauterini passano attraverso tutte le loro fasi prima della nascita. Si tratta di passaggio evolutivo incredibilmente importante, che fornisce il punto di partenza per come in seguito reagiremo a un potenziale pericolo. Quando c’è una qualche forma di stress per l’embrione, come l’ombelico che tocca la regione orale, come risposta l’embrione stesso si ritirerà e si bloccherà. L’embrione può anche congelarsi come reazione allo stress della madre o a fattori ambientali malsani, come il fumo, le droghe, l’alcol o lo stress elettromagnetico. Se il RPP viene attivato troppo spesso durante lo stadio embrionale e lo stadio fetale iniziale, può diventare un’abitudine o un modello rinforzato che rimane forte per tutta la vita. Inoltre non confluirà bene nello stadio successivo – la prima fase del Riflesso di Moro. Nel corso della vita il RPP può quindi diventare la fonte di una serie di problemi e di disturbi. Questo si può osservare nei neonati che fanno resistenza quando vengono cullati e abbracciati dai genitori perché hanno difficoltà a ricevere stimolazioni tattili e vestibolari; o in bambini in età prescolare che si nascondono costantemente sotto i tavoli e non sono in grado di partecipare alle attività. 

Nel corso del tempo questi problemi si trasformano in ostacoli molto più grandi, in grado di influenzare in tante maniere il come una persona sta al mondo, dal modo di apprendere ed elaborare le informazioni, al sentirsi sicuri nel partecipare. I bambini e gli adulti che per tutta la vita hanno il RPP attivo tendono ad avere una tolleranza estremamente bassa allo stress sia reale che percepito, essendo inclini a scivolare più facilmente in uno stato di paura e di panico. Di solito sono persone con tensioni muscolari anormalmente elevate, inclini a fobie sociali e attacchi di panico, e tutto ciò è legato alla loro incapacità di sentirsi sicuri nel mondo. 

È capitato a tutti di incontrare qualcuno che ha problemi a gestire anche la minima quantità di stress. Una persona che si irrigidisce e si blocca al minimo accenno di percezione di pericolo. Questi sono individui che hanno un RPP attivo che ancora li controlla. Percepiscono il pericolo in quasi tutto. Spesso sono a malapena in grado di uscire, soli nel loro isolamento… Non riescono a rispondere alle domande che vengono poste loro, trovano incredibilmente difficile stabilire un contatto visivo e per loro è un incubo partecipare alle attività di gruppo. Se a casa, quando si sentono al sicuro, non hanno problemi di comunicazione, in ambienti sconosciuti o minacciosi si chiudono e si ritirano. Mentre possono sentirsi al sicuro a casa, non hanno sviluppato gli strumenti per sentirsi al sicuro nel mondo esterno. Questo li porta, nei momenti di insicurezza, a congelarsi – diventando letteralmente paralizzati dalla paura. Il RPP rimane un modello forte e praticato che ostacola e interferisce con il percorso dei riflessi difensivi. Ciò significa che il Moro, che è la fase successiva, non sarà in grado di emergere e svilupparsi bene. Così quando queste persone sono fuori nel mondo e percepiscono il pericolo e non hanno accesso al movimento: possono solo congelarsi. 

Avere un RPP attivo rende una persona incline a essere altamente reattiva anche alle stimolazioni sensoriali, come l’eccessivo rumore, la luce brillante, il tocco inatteso o altre stimolazioni vestibolari e propriocettive. Questo rende incredibilmente difficile concentrarsi, memorizzare e richiamare informazioni in ambienti scolastici e professionali perché il RPP può attivarsi in qualsiasi momento e mandare la persona in sovraccarico sensoriale, chiudendo il sistema e facendola ritirare dal mondo. 

I bambini che non hanno integrato il loro RPP tendono ad avere, come risultato, dei problemi sociali e/o scolastici. È comune per loro ritirarsi da situazioni sociali ed evitare il contatto con gli altri. Sono spesso timidi e hanno difficoltà a comunicare con i loro coetanei, sperimentando in qualche caso il mutismo selettivo quando si sentono sopraffatti. Ci sono in realtà alcune somiglianze tra un RPP attivo e l’autismo. In entrambi i casi, i soggetti sono inclini a isolarsi quando si sentono sopraffatti e hanno spesso difficoltà a stabilire il contatto visivo con altre persone. Inoltre, i bambini con autismo e i bambini con un RPP attivo hanno difficoltà ad adattarsi a nuovi ambienti o a essere flessibili quando si entra in situazioni ignote. Se il ritirarsi non funziona e adulti ben intenzionati, o bambini, cercano di convincerli a unirsi a loro, sembrano spesso diventare violenti e si scatenano per allontanarli. Tuttavia, è la paura smisurata che li controlla, si sentono intrappolati in un angolo incapaci di fuggire; da qui la possibile reazione estremamente violenta”. 

Utilizzando queste parole di Moira Dempsey, insegnante e kinesiologa, è possibile comprendere quanto gli eventi che ci incutono paura possono disturbare enormemente i nostri comportamenti e di conseguenza le nostre relazioni, sia lavorative che affettive. Portare della consapevolezza all’interno di queste conoscenze potrebbe aiutarci molto, dandoci così la possibilità di modulare certe risposte automatiche, limitando i danni e i giudizi che rischieremo di esprimere nei confronti ci certi cambiamenti comportamentali che potremmo notare negli altri e in noi stessi: nessuno escluso, quindi. Sapendo che quando siamo sotto stress, la paura è un modo diverso per definire lo stress, entriamo d’ufficio senza la possibilità di scelta, in quei meccanismi automatici fondamentali che ci guidano e sono garanti per la sopravvivenza, ma che limitano la nostra libertà e ci privano della nostra assertività e capacità di valutare nel merito i singoli eventi. 

Con questo ampliamento della consapevolezza si avrà la possibilità di sperimentare e guardare in modo differente alcuni incontri con persone, più o meno conosciute, nel momento in cui ci si accorge della loro scortesia e del loro comportamento brusco o semplicemente privo delle competenze sociali necessarie per tenere una conversazione corretta. Spesso abbiamo la tendenza a criticare queste persone per essere impulsive ed egoiste, anche se in realtà possono essere alle prese con un Riflesso di Paralisi da Paura e/o un Riflesso di Moro non integrati. Non si sentono al sicuro nel mondo, il che ha un grande impatto sulle loro capacità comunicative e su come interagiscono con gli altri. Poiché niente funziona in modo isolato, l’irritabilità e la mancanza di capacità di comunicazione di una persona, potrebbero benissimo essere legate alla mancanza di controllo muscolare e di coordinazione. Ci sono molte problematiche e fattori di stress che possono influenzare lo sviluppo. 

Quando non trattiamo bene le informazioni sensoriali siamo spesso in massima allerta a causa del pericolo. Il nostro sistema di allerta, che valuta la minaccia, si attiverà e molto facilmente sommergerà la corteccia prefrontale. Il problema è che questo può lasciare le persone in uno stato continuo di Lotta o Fuga perché quasi tutto può essere percepito come pericoloso. L’effetto di ciò è da sottolineare costantemente. Ricordare che non siamo in grado di pensare chiaramente durante i momenti di stress perché la sopravvivenza diventa il centro dell’attenzione. 

È importante anche notare che il Riflesso di Moro può inibire il modo in cui impariamo a leggere e scrivere. Sebbene sia un riflesso associato principalmente al rilevamento del pericolo, il Moro influisce anche sul modo in cui sviluppiamo la visione e gestiamo i processi uditivi; cosa che ha senso se si pensa a come gli esseri umani hanno sempre fatto affidamento sugli occhi e sulle orecchie per rilevare le minacce. Interrompere il modo in cui elaboriamo le informazioni uditive e visive può avere un effetto negativo su come impariamo a leggere. Le persone con un Moro attivo, ad esempio, spesso sono così preoccupate per le minacce percepite da avere difficoltà a concentrarsi efficacemente su ciò che stanno leggendo. 

Il corpo stesso riflette tutto ciò che sta succedendo dentro di noi. Avere un corpo teso e ingobbito può avere un effetto profondo sui nostri pensieri e sulle nostre emozioni. Quando il corpo è sopraffatto, la mente e le emozioni sono sopraffatte. Quando il corpo si sente sicuro e rilassato, altrettanto farà la mente. Il corpo è il fondamento che tiene insieme i nostri pensieri e le nostre emozioni. Ciò che è interessante sapere è che molte persone sono intrinsecamente inconsapevoli delle loro scelte. Pensano di dover fare qualcosa e che non ci siano alternative. Quando il corpo non ha scelta nel movimento e nella coordinazione ci fa sentire come se ci mancasse la possibilità di una scelta di tipo mentale. 

In quanto mammiferi proviamo emozioni e queste ci permettono di vivere il mondo in diversi modi: possiamo essere felici, tristi, arrabbiati, spaventati, eccitati e così via. Tuttavia, non siamo nati con la capacità intrinseca di comprendere le emozioni ed è proprio per questo che i bambini devono essere istruiti sulle loro emozioni in giovane età, in modo che sappiano esattamente cosa stanno provando e perché lo stanno provando. E’ importante proteggere i nostri figli e dare loro la possibilità di sentirsi al sicuro in modo che questo sia il tempo in cui imparano a fidarsi di persone al di fuori della loro famiglia e a come fare per inserirsi in un gruppo che condivide esperienze simili. Dopo tutto, gli esseri umani sono esseri sociali che prosperano grazie al sostegno degli altri. Mantenere uno stato di allerta costante condiziona di fatto lo sviluppo psico-emotivo non solo dei bambini, facendo diventare la paura un veicolo fondamentale di disturbo per l’apprendimento dell’indipendenza e di disturbo nel dare un senso ai sentimenti, due passaggi fondamentali per poter vivere nel mondo in piena libertà e responsabilità. (www.movimentoeapprendimentoperlavita.com)

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